Simone Weil: considerazioni e meditazioni sull’Europa

  • di Maria Concetta Sala

La vita e l’opera di Simone Weil (1909-1943) spiccano nel panorama della prima metà del Novecento, e tra le stesse filosofe, per l’originalità di un pensiero che non è collocabile nella moltitudine di correnti filosofiche dominanti in quel periodo storico. La sua opera non conforme costituisce una novità nel metodo del procedere filosofico, giacché il suo pensiero si mantiene sul solco della materialità, scaturisce dal contatto con i dati esperienziali, attraversa l’esistente e l’esistenza con il corpo, con la mente e con l’anima; la sua filosofia consiste infatti nel non separare percepire, pensare, agire.

Simone Weil milita nel sindacalismo rivoluzionario e nel corso dell’esperienza di militante s’interroga sulle difficoltà di realizzazione dell’unità sindacale, sui pericoli determinati dalla burocratizzazione di ogni apparato e sull’oppressione esercitata dai meccanismi sociali e produttivi; insegna nei licei femminili e mette in atto una pedagogia fondata sull’addestramento dell’attenzione e sulla non violazione della distanza da parte dell’adulta/o nei confronti di chi è più giovane; lavora in fabbrica e accompagna la sua formazione con l’annotazione quotidiana su un quaderno di tutto ciò che fa e che le capita e con la narrazione dei sentimenti e dei pensieri che incidono sul suo corpo e sulla sua anima;  va a combattere in Spagna a fianco degli anarchici della colonna di Buenaventura Durruti e coglie attraverso la sua esperienza i disastri legati all’esercizio della violenza;  lavora nei campi e concepisce che c’è un modo di guardare alla natura diverso da quello di chi ne ammira il paesaggio e non si è mai sporcato le mani in un lavoro manuale; legge i frammenti prepitagorici e pitagorici e dalla sua pratica di lettura emerge una visione della scienza che ricompone al di sopra dell’idolo sociale la frattura tra spirito e universo, tra mente e universo; vive un’esperienza mistica che riverbera un connubio di azione e contemplazione esemplare tanto per chi professa un’autentica fede quanto per chi obbedisce a un eccesso d’amore. Una fede e un amore che sono visibili nella condotta di vita,  nei gesti, nel linguaggio, nella capacità di rinunciare a ogni forma di potere per far posto alla relazione.

  1. Gli anni 1937-1940

               Al fine di cogliere il frutto delle considerazioni e meditazioni di Simone Weil sull’Europa, è opportuno soffermarsi sugli anni 1937-1940, per poi passare al contesto londinese (1942-1943).                                                         Nell’atmosfera dell’Europa del 1937, in cui si avvertiva l’imminenza di una guerra, la Spagna si era trasformata in campo di lotta tra fascismo e comunismo e di battaglia tra le potenze fautrici dell’uno o dell’altro fronte. Il pacifismo di Simone Weil fino a quel momento quasi incondizionato comincia a vacillare: a suo giudizio, tuttavia, dal momento che si lascia massacrare il popolo spagnolo, bisognerebbe lasciare massacrare i Cechi qualora fossero attaccati dalla Germania. Nel saggio del 1937 Non ricominciamo la guerra di Troia si rileva che gli uomini sono soliti battersi per parole vuote ma avide di sangue, alle quali attribuiscono un valore assoluto, in definitiva si battono per dei fantasmi; si pensi a Elena, il fantasma nel cui nome Greci e Troiani combatterono per dieci anni, mentre in realtà non aveva mai lasciato l’Egitto, come racconta Euripide; data l’influenza perniciosa che l’immaginazione ha sui meccanismi sociali, occorre dunque discriminare il reale dall’immaginario. In questo scritto Weil riconosce come legittima, vitale, essenziale solo la lotta di classe in quanto «lotta eterna di coloro che sono costretti a obbedire contro coloro che comandano» (in Pagine scelte, Marietti, 2009, p. 121), ma ai suoi occhi la lotta di classe può non essere una guerra, perché di per sé non necessiterebbe di violenza.

 Nel giugno 1937, dopo le dimissioni  di Léon Blum e la fine del governo del Fronte popolare e di fronte all’avanzata del nazismo e all’incombere di un tentativo di colonizzazione universale, il pacifismo di Simone Weil viene meno. Nei suoi scritti ribadisce tuttavia che la Francia non può portare avanti una guerra per così dire giusta se non cancella le ingiustizie commesse nei confronti dei paesi e dei popoli che ha colonizzato in Asia e in Africa e sostiene che la chiave di lettura dei fenomeni sociali risiede nella nozione di forza. Nel 1939 in un lunghissimo articolo rintraccia le origini dello hitlerismo nella politica dell’antica Roma, che «ha abolito con la forza le diverse culture del bacino mediterraneo, salvo la cultura greca, che ha relegato in secondo piano, sostituendola con una cultura quasi interamente subordinata alle esigenze della propaganda e alla volontà di dominio» (Riflessioni sulle origini dello hitlerismo, in Sulla Germania totalitaria, Adelphi, 1990, pp. 267-268); afferma che il nazismo non costituisce una invenzione, eredita semplicemente la volontà di potenza e di prestigio, il culto della grandezza, il meccanismo della centralizzazione burocratica e militare di Roma, fatti propri in seguito da Richelieu, da Luigi XIV e da Napoleone.

La sua riflessione procede in quello straordinario saggio che è L’Iliade o il poema della forza, dove individua la potenza della forza nella capacità che essa ha di trasformare gli esseri umani in cose, alla lettera in cadaveri, all’interno di un dramma umano che coinvolge e abbassa tutti, vincitori e vinti. Vi si sottolinea che il miracolo compiuto da Omero consiste nella sua straordinaria equità e che gli unici accenti di insanabile amarezza presenti nel poema vertono sulla miseria umana, sulla subordinazione dell’umano alla forza, a cui nessun mortale è sottratto; essi procedono dalla tenerezza che si diffonde in modo imparziale su vincitori e vinti al pari della luce del sole che illumina tutti. L’epopea omerica non è la narrazione di gesta eroiche, è l’espressione del pensiero greco della giustizia, quello stesso spirito di giustizia presente nei Vangeli, che i popoli europei hanno smarrito e che potranno forse ritrovare «quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, che mai si deve ammirare la forza, né odiare i nemici, né disprezzare gli sventurati» (in La rivelazione greca, Adelphi, 2014, p. 64).

            Il contesto londinese (1942-1943)

Nel 1940 a settembre i Weil raggiungono Marsiglia nella speranza di partire per gli Stati Uniti. Nella prolungata attesa Simone Weil, oltre a scrivere tantissimi articoli e saggi e a riempire i suoi quaderni di annotazioni, si occupa delle condizioni dei prigionieri stranieri chiusi nei campi di concentramento alla periferia della città, entra in contatto con i primi nuclei di resistenti, lavora come vendemmiatrice. Ottenuti i lasciapassare, i Weil approdano a New York agli inizi di luglio del 1942. Lei si mette subito alla ricerca di personalità e ex compagni di studi in grado di aiutarla a rientrare in Europa; nel frattempo frequenta un corso di primo soccorso a Harlem; munita di salvacondotto, raggiunge nel dicembre del 1942 gli uffici londinesi di France Combattante con l’incarico di redattrice.

Due dati caratterizzano la sua vita e la sua opera sin dall’adolescenza: la scelta di stare dalla parte degli oppressi, degli schiavi, degli sventurati e la vocazione alla ricerca della verità, accompagnata dalla certezza che chiunque, anche il meno dotato, può penetrare «nel regno della verità riservato al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo per attingerla» (L’autobiografia spirituale, in Attesa di Dio, Adelphi, 2008, p. 25). Per lei la verità, nella quale include bellezza, virtù e ogni specie di bene, è sempre sperimentale e, a suo avviso, per l’avanzamento del pensiero è necessario il contatto diretto con ciò che ne è l’oggetto.

       Per questo a Londra la troviamo determinata a realizzare il Progetto di infermiere di prima linea, il cui  intento è mostrare concretamente una forma di eroismo votato alla cura della vita e alla compassione da parte di un gruppo di donne tenere e risolute, compresa lei stessa, un eroismo di segno contrario rispetto a quello nefasto dei nazisti votato alla morte. Il progetto non si realizzò perché De Gaulle lo ritenne folle. Amareggiata perché così le veniva meno il contatto diretto con la sventura a lei necessario per procedere nelle sue riflessioni e irremovibile nel rifiuto di mangiare più di quanto era concesso ai suoi connazionali dal razionamento del cibo, non le rimane che accettare di redigere note e commenti ai documenti fatti pervenire a Londra dai diversi gruppi clandestini.  Ma non si limita a questo: scrive diversi saggi tra dicembre e aprile – sarà ricoverata in ospedale il 15 aprile del 1943 probabilmente a causa di una  tubercolosi – e annota le ultime riflessioni in un taccuino durante la degenza – morirà nel sanatorio di Ashford il 24 agosto all’età di 34 anni.                                                                                                                                             Nella grande mole degli scritti londinesi prima del ricovero continua a interrogarsi sulle questioni che l’hanno accompagnata nel corso della sua breve esistenza: come reinventare il senso di civiltà? come ripensare la cultura, la scienza, la religione occidentali? quale soluzione dare al dramma sociale? Mi soffermerò ora su due aspetti fondamentali così come si presentano in due scritti londinesi: uno brevissimo, La persona e il sacro (Adelphi, 2012; d’ora in avanti PS) e l’altro poderoso, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana (SE, 1990; d’ora in avanti PR).

      Nel primo scritto c’è una definizione di sacro che riguarda l’essere umano nella sua interezza –  braccia, occhi, pensieri: ciò che può trattenere la nostra mano e la nostra mente a esercitare su di lui, su di lei violenza «è il fatto di sapere che se qualcuno gli cavasse gli occhi la sua anima sarebbe straziata dal pensiero che gli viene fatto del male» (PS, p. 13); ciò che può impedircelo è la sua invincibile aspirazione al bene, la sua aspettativa di bene.  Il rispetto non deve andare alla persona bensì a ciò che in lui/lei è sacro; gli/le si deve prestare «quell’attenzione amorevole e penetrante che permette» di sentire il suo grido: «Perché mi viene fatto del male?» (PS, p. 16) e di discernerne il significato. Questo grido non è qualcosa di personale, «sgorga sempre per la sensazione di un contatto con l’ingiustizia attraverso il dolore. Costituisce sempre, nell’ultimo degli uomini come nel Cristo, una protesta impersonale» (PS, p. 17).

        Ciò che è sacro è dunque ciò che è impersonale e per uscire dal personale e passare nell’impersonale è necessaria «un’attenzione di qualità rara, che non è possibile se non nella solitudine. Non solo solitudine di fatto, ma anche solitudine morale» (PS, p. 19). Questo passaggio non si effettua se ci si considera membri di un noi, di una collettività, a cui si finisce con l’attribuire un carattere sacro; per sfuggire al collettivo in quanto oggetto di idolatria, occorre penetrare nell’ambito dell’impersonale. Solo grazie a questo passaggio diventa naturale sentirsi responsabili nei confronti di ogni altro essere umano e aver cura che tutti abbiano intorno a sé dello spazio, che dispongano di tempo libero, di solitudine, di silenzio, di calore. La società democratica abbandona invece all’afflizione e al freddo gli esseri umani, per di più svilisce il lavoro fisico compiendo così un sacrilegio:

           «Se coloro che lavorano lo sentissero, se sentissero che per il fatto di esserne vittime ne sono anche complici, la loro resistenza avrebbe tutt’altro slancio rispetto a quello che può loro fornire il pensiero della loro persona e del loro diritto. Non si tratterebbe di una rivendicazione; sarebbe un sommovimento dell’intero essere, veemente e disperato come in una ragazza che si voglia mettere con la forza in una casa di tolleranza; e al tempo stesso sarebbe un grido di speranza scaturito dal fondo del cuore» (PS, p. 26).

             Simone Weil coglie la logica perversa della politica dei diritti ridotta alle nozioni di spartizione, di scambio e di quantità, che si regge soltanto sul piagnisteo rivendicativo, e suggerisce una diversa lettura del dramma sociale:  parlare di diritto/diritti nell’acquisto e nella vendita dei prodotti, nel commercio delle merci può andare bene, è insensato parlarne quando l’oggetto della contrattazione è l’essere umano oppresso, come nel caso di una ragazza che viene prostituita. Weil ci esorta a non cadere nella trappola ossessiva e asfissiante che parole come persona, democrazia, diritto trascinano con sé, e ci sprona a discernere e usare parole che esprimano solo del bene, parole come compimento di un obbligo, verità, bellezza, giustizia, compassione, che «sono beni sempre, ovunque» (PS,  p. 37).  L’altro scritto, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, è una proposta avanzata alla Commissione per la riforma dello Stato in vista di una formulazione di una dichiarazione dei doveri, degli obblighi, e nella quale lei pone in questione la dichiarazione dei diritti del 1789, dato l’errore  degli uomini dell’̒89 che fecero della nozione di diritto un principio assoluto e incondizionato – e forse non sarà casuale, aggiungo, che da quella dichiarazione siano state escluse le donne di ogni ordine e classe e che si sia mandata al patibolo Olympe de Gouges, colpevole di averne redatto una relativa al riconoscimento delle donne. Torniamo a Simone Weil: a suo giudizio, si sarebbe dovuto pensare invece alla nozione di obbligo che «lega tutti gli esseri umani», e il cui oggetto «è sempre l’essere umano in quanto tale. Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. […] Quest’obbligo è eterno. Esso risponde al destino eterno dell’essere umano» (PR, p. 14). La nozione di obbligo costituisce infatti il punto di contatto indiretto tra il regno del bene, a cui ogni uomo aspira e che nel cuore umano corrisponde all’esigenza e all’aspettativa di bene, e il regno della necessità, il regno della materia, il regno della forza.                                                Per sottrarre il diritto alla forza, il rapporto tra diritto e obbligo viene da Weil riformulato in questi termini: «l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa» (p.13).  Per esempio, se qualcuno soffre la fame e io ho di che sfamarlo è un obbligo per me dargli da mangiare; su questo c’è accordo tra un testo dell’antico Egitto e i Vangeli, c’è e ci può essere accordo fra un credente e un non credente, fra un conservatore e un progressista. Facciamo un altro esempio: se una donna che ha dei bambini a casa che patiscono la fame ruba del cibo, non si può parlare di un attentato al diritto di proprietà e condannarla, bisogna tener conto che nel suo caso è stato violato l’obbligo di soddisfacimento del bisogno suo e dei suoi bambini di essere nutriti a causa di un ordine sociale ingiusto e squilibrato; ma su questo non c’è sempre comune accordo perché sull’obbligo al soddisfacimento del bisogno di nutrimento prevale il diritto incondizionato alla proprietà privata.                                                                                                   In questo testo Simone Weil dedica un’analisi dettagliata alle diverse forme della malattia dello sradicamento (operaio, contadino, geografico) e nella parte relativa al radicamento – «il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana» (PR, p. 49) –  si pone il «problema di un metodo capace di ispirare un popolo» (PR, p.171). Sono pagine oltremodo importanti, perché possono aprire un varco nella crisi di senso dell’Occidente e suggerire una via d’uscita dalla disgregazione dei legami comunitari e dall’offuscamento individuale:  in esse la vita sociale viene concepita secondo la prospettiva della giustizia, che è equilibrio, e in termini di rapporti fondati non sulla volontà di potenza e di dominio ma sul principio di relazione tra corpo e anima in ogni individuo, tra gli individui, all’interno di ogni comunità, tra le comunità, tra i saperi, tra le culture.

  1. Quale Europa?

Come tener conto tuttavia delle aspirazioni degli oppressi, degli schiavi, degli sventurati? come educarci e educare all’ascolto dei loro pensieri inespressi per inventare forme di convivenza in cui trovi posto la pratica della giustizia, ovvero vigilare che non sia fatto del male all’essere umano, esercitare nei suoi confronti l’attenzione amorevole che predispone all’ascolto del suo grido silenzioso? Ebbene ogni politica che fagocita l’umano, che assoggetta a un potere arbitrario, che persevera nel culto dei tre “mostri” che caratterizzano la nostra civiltà –  ovvero il denaro, le macchine (oggi diremmo le nuove tecnologie), i  segni algebrici (oggi diremmo gli algoritmi) – non può che portare avanti l’opera di sradicamento, con tutti i mali che ne conseguono.  È necessaria una trasformazione interiore, è necessario un cambiamento di mentalità perché la politica possa volgersi concretamente a rispettare l’aspettativa di bene che rende uguali in dignità tutti gli esseri umani e operi affinché siano soddisfatti i bisogni terrestri sia fisici che spirituali di ciascuno/a.                                                                                                                                                      Per edificare una nuova convivenza civile tra donne e uomini fondata sull’inviolabilità dei corpi e delle anime in questa nostra Europa così lacerata dai mali che ha disseminato al suo interno e fuori di sé, è indispensabile rivedere sotto altra ottica il dramma sociale, opporsi a ogni forma di reificazione e alienazione e in primo luogo educare a un cambiamento di mentalità che permetta di superare la macchia originaria – l’aver fatto delle donne un oggetto, una merce di scambio – e di accogliere la differenza femminile e la differenza maschile.  Occorre quindi rivedere la storia e la falsa idea di grandezza che tramanda; inventare una nuova organizzazione del lavoro; reinventare la scienza; pensare a una nuova forma di religione. È soprattutto indispensabile un linguaggio che sia in grado di esprimere le verità correlate ai bisogni del corpo e dell’anima, affinché esse possano circolare tra gli esseri umani che hanno culture differenti.

 Il volto dell’Europa può assumere tratti qualitativamente diversi se prendiamo coscienza dei nostri limiti in quanto esseri dipendenti, e non onnipotenti, se orientiamo la politica europea , e in generale ogni politica, non alla semplice imposizione di norme e convenzioni giuridiche che, come è facile costatare, cambiano con il cambiare degli apparati di potere, bensì al rispetto di ogni vivente, alla cura e alla salvaguardia anche se in extremis degli ambienti naturali che ci ospitano, degli animali, delle piante, delle rocce, delle acque, dell’aria…  In questa nostra Europa dove approdano uomini e donne di ogni età che arrivano da storie, da paesaggi, da bellezze, da culture, da miserie di cui sappiamo ben poco ci è data un’occasione concreta per ri-vedere il nostro modo di sentire, concepire e agire da padroni del mondo, per educarci e educare a cogliere la ricchezza che affluisce dall’esercizio di mutamento nello sguardo e che procede dalla pratica di riconoscimento dell’altro da sé attraverso conflitti non mortiferi. Non abbiamo altra risorsa, se vogliamo svegliarci dal nostro ottundimento, se non quella di praticare un’accoglienza amorevole e riconoscere che abbiamo bisogno di coloro che bussano alle nostre porte.

  • Contributo di M.C Sala in occasione del convegno ”Donne per l’Europa” organizzato dall’associazione Le Rose Bianche a Palermo, presso l’ Oratorio delle dame, 30 marzo 2019