Di fronte allo scenario di confusione e incertezza post elettorale, mentre restiamo in attesa della nascita di un governo per l’Italia, sentiamo il bisogno di una riflessione sul senso fondante della democrazia reale, sulla possibilità cioè di individuare i criteri in base ai quali la politica possa svelare la sua anima, possa cioè tradursi in giustizia sociale, benessere economico e progresso umano distribuiti secondo equità.

A tale scopo scrivo sfruttando il margine di libera espressione democratica che il web ancora ci riserva, malgrado siamo avvisati del fatto che «la connessione non è sicura», confidando ottimisticamente sulla possibilità che le “spie di sistema” possano segnalare presso i manovratori delle leve il flebile suono che viene dal pianeta della gente comune.

Scrivo come insegnante, come cittadina, come donna, forse velleitariamente e con buona dose di ingenuità, volendo credere che nell’era dei populismi “mossi dal basso” e quindi diretti, si possa prendere parola motu proprio, come libero esercizio di cittadinanza.

Come insegnante vorrei che dalla politica venisse una scelta di campo per ridare fiducia e dignità ai giovani, riconoscendo loro spazi di responsabilità. Il rigore e la serietà che si pretendono negli studi e nei comportamenti dei giovani non può che essere esito di assunzione di responsabilità. Tuttavia di fatto il sistema sociale lascia loro ben pochi margini di opzionalità e dunque di responsabilità, a fronte del lassismo e dall’assenza di regole di cui li ha resi vittime il disimpegno educativo degli adulti, autoassolto con premure consumistiche nell’ambito privato e con l’elargizione di “bonus” di varia natura nell’ambito pubblico. Ai nostri giovani restano brandelli di opportunità che rendono marginale il loro ruolo nella società e quindi la loro possibilità di realizzazione umana e sociale, spingendoli verso la dispersione della loro personalità, finendo per risultare sdraiati, bamboccioni, immaturi. A chi compete arginare la dissoluzione delle energie vitali dei nostri giovani? Certamente a ciascun adulto, in misura del proprio ruolo educativo, ma è responsabilità della politica, oltre che della società tutta, aver “anestetizzato i giovani”, averli resi “invisibili” e “zitti”, per dirla con le taglienti parole di denuncia di papa Francesco, in occasione della Giornata Diocesana della Gioventù, uno sprone ai giovani perché sollevino il capo, prima che per loro “gridino le pietre”. Quale più chiara condanna della sordità e della insensibilità della politica che di fatto ha sottratto ai giovani il diritto di parola?

L’arrogante restrizione di spazio vitale per i giovani prova una subdola pianificazione di sudditanza. Su quest’ultima considerazione scrivo come cittadina.

La categoria di cittadinanza è stata consegnata alla modernità dalla Rivoluzione francese. Dal marasma che emerge da quelle pagine di storia, per gli intrecci socio-politico-culturali tra le forze intellettuali progressiste rappresentative della indignazione popolare e la correlata irrazionalità sanguinaria, appare evidente che in quella rivoluzione non si radicarono né l’uguaglianza, né la fratellanza, né tanto meno la libertà, rimasti solo slogan, ma la cittadinanza sì, come concetto di autodeterminazione condivisa e solidale dell’essere umano relazionato all’interno della complessità sociale.

Nella categoria di cittadinanza sancita da un contratto costituzionale che vincola tutti i membri della società in essa sovranamente rappresentati, la democrazia trova il suo radicamento, la sua anima.

Chi governa in un paese democratico non può trattare cittadini e cittadine come sudditi. La democrazia non sopporta gerarchie se non funzionali alla sua stessa gestione. La sordità cinica, l’arroganza del privilegio di chi gestisce il potere, rispetto all’attesa del bisognoso o al disagio dell’indigente, per non parlare dell’avvilente disfunzione degli apparati burocratico-amministrativi, suscitano indignazione e spesso rabbia. Se poi all’insensibilità si coniuga la corruttela, il potenziale di ribellione manca solo di esplodere.

Rigenerare lo stile politico assumendo il potere come ruolo di servizio: una speranza per la popolazione, un argomento di propaganda per i politici.  Il problema è che lo stile è un fatto culturale, un habitus comportamentale, un’acquisizione di cura; esso si elabora nel percorso di crescita, dunque attraverso il processo educativo. Solo con queste premesse si può ottenere un esito di cambiamento perché si possa registrare un nuovo modello di società umana. Si tratta proprio di umanità, perché, in ultima analisi, l’anima della politica è proprio l’umanità e questa si misura infatti ovunque il consorzio umano stabilisce reti di interazioni virtuose: la scuola, gli ospedali, i luoghi di giustizia come le carceri e i tribunali, ma anche i semplici spazi di convivenza, quelli dell’intrattenimento e dello svago dovrebbero essere luoghi di attenzione, disponibilità, cura o semplicemente di cortesia; ma lo stile di servizio spesso è ritenuto un soprammercato, quando invece è un obbligo che si deve in proporzione del ruolo di responsabilità.

Qui la riflessione incontra termini che fanno appello a una dimensione altra che richiede una profondità che la politica sembra abbia smarrito da tempo, contrassegnata com’è da un linguaggio sguaiato, becero, prepotente. A tale proposito scrivo come donna.

Ipotizziamo che l’anima della politica di cui andiamo alla ricerca si sottragga all’esercizio di una ragione che, per quanto illuminata possa essere, implica la pretesa, lasciatemi dire androcratica, del controllo, dell’appartenenza, del discrimine. In fondo che cosa ha posto in atto l’idea di politica fin dai tempi degli antichi greci, se non criteri razionali di governo distinguendo classi, gerarchie e partiti con relative contese volte a stabilire l’”imperio della forza”, come direbbe Simone Weil? E se si trattasse di ripensare il fare politica secondo una dimensione del logos che va oltre questo tipo di “ragione”?

Nel peregrinare millenario del logos, si sono aperti varchi all’intuizione, all’inclusione, alla visione tutte le volte in cui qualcuno ha considerato che la complessità della vita necessita di guardare oltre la propria ragione, oltre l’esprit de géométrie, per far vivere l’esprit de finesse, secondo l’illuminante intuizione dello scienziato Pascal.

Lo stile di politica che gli uomini hanno condotto, sedotti dal dominio del logos, andrebbe integrato con lo stile solitamente più proprio delle donne, non per nulla ritenute prive di anima razionale dai tempi di Aristotele, al quale Platone replicherebbe tuttavia che «le donne hanno la medesima attitudine degli uomini a difendere lo Stato».

Come donna vorrei difendere la politica facendo l’apologia delle virtù che caratterizzano l’agire per la res publica secondo un paradigma diverso da quello imposto da sempre dal logos androcratico, quello appunto che pretende di sapere da che parte stia la ragione e, quel che è peggio, di imporla.  Piuttosto che a tale paradigma del razionale vorrei che la politica guardasse a quello che pure ci offre il logos, inteso però in questo caso come parola che vivifica, divenire che accoglie gli opposti per trarne progresso armonico, forza creatrice di novità. È tempo che la politica impari a esercitare l’arte di armonizzare le diversità, di individuare percorsi di creatività, di far precedere al proprio l’interesse altrui. Chiamerei questa accezione del logos col termine weiliano di attenzione.

L’attenzione è disarmata dai pregiudizi, perché prima di tutto si pone in ascolto; è spoglia di ogni arroganza, perché è accoglienza, apertura gentile; è libera da ogni spirito di competizione perché piuttosto è interessata alla cooperazione; disdegna l’intrigo perché invece è esercizio di tessitura, cura, mediazione; non riduce il tempo della vita a produttività, ma coniuga il lavoro con il dispiegarsi della vita.

Poche considerazioni, ma spero sufficienti a far emergere lo stile che potrebbe facilmente tradursi in programma d’azione per chi ha ruoli pubblici, occupa cioè gli spazi della politica che evidentemente in democrazia non sono solo quelli di chi governa, bensì attengono all’esercizio ordinario di cittadinanza, dunque a ciascuno di noi secondo un modello di cura e dedizione che dovrebbe connotare ogni ambito relazionale della vita quotidiana, contrassegnato da uno stile che rivela semplicemente umanità.

Alla politica la responsabilità di elevare questo stile a sistema.

 

Stefania Macaluso