Gli incontri con le amiche delle Rose Bianche sono sempre stati nutriti dalla preghiera sommessa ma incessante di chi cerca il Signore, di chi vuole sentire la sua presenza dentro di sé, di chi vuole aprire il suo cuore alla lode e alla consapevolezza dei propri limiti per mettersi alla sua sequela. Non in modo bigotto o sganciato dal reale, ma con l’atteggiamento di chi non desidera stare a guardare e anzi sente di dovere compiere la sua parte nei luoghi in cui si trova. Quest’impegno è stato assunto col proposito di vivere seguendo la verità nell’amore, per crescere in ogni cosa verso colui che ne è la fonte, cioè Cristo. L’amore è l’antidoto più efficace contro l’individualismo che si è imposto nel mondo contemporaneo, sempre più ripiegato su di sé, talora incurante dei bisogni altrui. A volte volgiamo il nostro sguardo al prossimo, non per soccorrerlo, ma per giudicarlo, per confrontarci con esso in una spasmodica competizione che ci spinge a primeggiare a tal punto da non accettare per nessuna ragione di essere secondi a nessuno. Anni fa uscì un libro di Luigi Zoja, pubblicato da Einaudi, dal titolo preoccupante “La morte del prossimo”. In esso si sostiene che la morte di Dio, oltre ad avere annichilito quei valori sui quali si era fondata la convivenza umana per secoli, aveva portato inevitabilmente alla morte del prossimo, a questa imperdonabile indifferenza che caratterizza il modo di agire e di pensare odierno. Il Papa parla spesso di “cultura dello scarto”,[1] riferendosi a quelle categorie di persone, più indifese, bisognose del nostro aiuto, anziani, bambini, sofferenti, stranieri, etichettati come pesi di cui scrollarsi, come fastidi che ostacolano la serenità di tante famiglie, condomini e perfino, a volte, di qualche comunità religiosa. Il primo obiettivo che dunque ci siamo prefissati è quello di far recuperare una dimensione di prossimità alla società, che ristabilisca le relazioni interrotte o mai cominciate, che rispetti la dignità dell’essere umano, che anteponga il bene comune a quello individuale, che ci faccia sì gareggiare ma nello stimarci a vicenda.[2] In tale sforzo, su cui possono convergere le energie di tante amiche, di cultura e formazione diverse, con le quali chiediamo di collaborare accomunate e stimolate dai medesimi propositi, noi Rose Bianche abbiamo però scelto di farci ispirare dal Vangelo. Abbiamo così deciso convinte che in esso sia contenuta la più grande lezione d’amore, nella quale il bene compiuto in favore di qualcuno si crede essere fatto a Dio. Per questo, da donne, ci siamo riconosciute nella pericope giovannea della samaritana, di questa donna il cui incontro col Signore ha drasticamente cambiato la sua vita, riempiendola di senso, convertendola da peccatrice in evangelizzatrice. “Donna, dammi da bere” è il nostro motto ed è anche la richiesta di Gesù, con cui ha inizio un dialogo stupendo al termine del quale la domanda si invertirà e, dinanzi alla promessa di avere un’acqua che disseta per la vita eterna, sarà la donna stessa a chiederla al Signore.[3] L’approccio di Gesù non è imperativo, ma rompe gli schemi e i pregiudizi di una mentalità pesantemente discriminante verso gli eretici samaritani. Ai suoi occhi ciò che conta è la persona, più dell’etnia, della reputazione, perfino della fede. L’acqua non simboleggia la morte, come in altri passi dell’antico testamento, ma la vita nuova, la rigenerazione della grazia, la rinascita da una esistenza vuota, dissoluta, in balia di profittatori e infedeli, essa prefigura il lavacro battesimale e dunque la liberazione dal peccato. Il Signore la chiama “donna”, così come si era rivolto a sua madre alle nozze di Cana[4] all’inizio del suo ministero e come dirà alla Maddalena dinanzi al sepolcro vuoto.[5] Con quest’espressione egli riconosce la dignità di quella sventurata, la cui svolta ha inizio dalla consapevolezza di sé, della sua femminilità, della straordinaria capacità di amore che essa possiede. La donna, secondo Edith Stein, intuisce il concreto, il vivente e il personale; ha una particolare sensibilità per conoscere l’oggetto nel suo valore specifico; fa propria la vita spirituale altrui e desidera portare alla massima perfezione l’umanità nelle sue espressioni più specifiche, attraverso un amore pronto a servire; tende ad attuare uno sviluppo armonico di tutte le energie. Per questo, prosegue la santa carmelitana, la promessa della redenzione coinvolge in primo luogo la donna e a una donna, Maria, è affidato il compito di lottare contro il male.[6]

Questo percorso riteniamo che debba svolgersi alla luce della verità, e questo è il secondo obiettivo al quale tendiamo. Come insegna Benedetto XVI, la carità non va scissa dalla verità, l’amore è il fondamento di ogni impegno sociale, che sostanzia le relazioni col prossimo. E tuttavia, senza la verità, è soggetto agli sviamenti, a scivolare nel sentimentalismo, “un guscio vuoto da riempire arbitrariamente”.[7] Da qui la necessità irrinunciabile di contemperare la carità con la verità, per agire liberi da condizionamenti, ipocrisie, compromessi, ambizioni carrieristiche, chiusure confessionali; per resistere alla tentazione di concepire la carità senza la giustizia e questa senza la misericordia. Il sistema in cui viviamo è dominato da un relativismo culturale, che a volte pretende che il rispetto delle idee altrui passi per la rinuncia alle proprie o per la loro equiparazione a quelle degli altri. Al contrario, credere che la verità sia una e trascendente, esclude che possa essere pienamente compresa da qualcuno, che coincida con un concetto umano o con un principio etico o filosofico, ci preserva dai totalitarismi e dai fanatismi. In quest’ottica tutti, anche chi la pensa diversamente da noi o professa un credo diverso dal nostro, può concorrere alla sua manifestazione. In tale ricerca si sono distinte figure splendide di donne tra le quali mi permetto di ricordare la già citata Edith Stein, inquieta intellettuale ebrea che, dopo aver letto l’autobiografia di Teresa d’Avila, ebbe a dire: “Questa è la verità!”. Nel Vangelo mi piace richiamare l’episodio della cananea che implora Gesù di salvarle la figlia.[8] Questa donna sembra che cambi il Signore, che lo richiami ai doveri per i quali è venuto, che lo affranchi dalle errate contrapposizioni nei confronti degli stranieri. In realtà è una madre che supera brillantemente la prova cui è sottoposta, sprigionando una fede, lei che non va al tempio e prega un altro dio, che stupisce tutti, “non quella dei teologi, spiega bene Ermes Ronchi, ma quella delle madri che soffrono, di chi conosce Dio dal di dentro e lo sente all’unisono col suo cuore di madre, lo sente pulsare nel profondo delle sue piaghe. E sa che Dio è felice quando vede una madre, qualsiasi madre, abbracciata felice alla carne della sua carne, finalmente guarita”.[9] Diceva mons. Cataldo Naro che è vero che il fine dell’uomo è Dio, ma è altrettanto vero che il fine di Dio è l’uomo, Egli ha bisogno di noi, non un bisogno ontologico, ma che scaturisce dalla sua stessa volontà.

Dunque le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà, ma la carità non finirà mai.[10] Non verremo alla meta ad uno ad uno, afferma Eluard, ma a due a due, noi ci conosceremo tutti, ci ameremo tutti e i figli un giorno rideranno della leggenda nera dove un uomo lacrima in solitudine. Scrive san Paolo ai Romani, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo con Cristo.[11]

Dal confronto dialogico, afferma il nostro manifesto, ci si è sempre adoperate e continueremo, con il vostro aiuto, a farlo, per veicolare riflessioni che alimentino motivazioni e convincimenti virtuosi nella direzione di un’autoeducazione al senso di cittadinanza attiva.

Oggi ci vogliamo rivolgere a voi amiche per adempiere a questo compito formativo di presa di coscienza della democrazia, bene collettivo da nutrire e da difendere, e insieme sarà più facile diffondere buone pratiche corroborate dalla preghiera, perché il Logos cristiano, per citare la nostra Presidente, è garanzia di apertura incondizionata per un’ ampia e costruttiva condivisione.

Già nel nostro privato, nelle nostre attività lavorative, operiamo secondo quella visione di politica non basata su insane relazioni, che generano le ingiustizie di cui la nostra società è corrosa, ma in quell’apporto di armonia, di cui noi donne siamo capaci. Così potremo davvero tendere “ad un’altra politica”, essere sentinelle del mattino, sapendo che, anche se la notte è notte, come dice Dossetti,  occorre vigilare per non ripiegarsi nostalgicamente sul passato ed attendere, con la lucidità necessaria per riconoscerne i segni, l’arrivo dell’Aurora.[12]

                                                                                                                  Vita Margiotta

*Riflessione offerta alle amiche in occasione dell’incontro del 4 luglio 2019 durante il quale hanno pronunciato la “Promessa di impegno” nove socie divenendo “Animatrici”.

 

[1] Francesco, Evangelii gaudium, 53.

[2] Rm 12, 10.

[3] Gv 4, 7-15

[4] Gv 2, 4

[5] Gv 20, 15

[6] A. A. Bello, Edith Stein. La passione per la verità, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2003, pp. 78, 82.

[7] Benedetto XVI, Caritas in veritate, 3.

[8] Mt 15, 21-28

[9] https://www.avvenire.it/rubriche/…/la-donna-cananea-che-«cambia»-gesu_20140814

[10] Cfr. 1Cor 13, 8

[11] Cfr. 1Cor 12, 12-27

[12] https://www.mosaicodipace.it/mosaico/docs/4162.pdf