Le donne al seguito di Gesù

Marida Nicolaci

O. L’ispirazione evangelica del «manifesto» delle Rose Bianche

Le promotrici dell’associazione si dichiarano testimoni «della dignità della donna radicata nel Vangelo» – ben oltre ogni funzionalità – e vogliono «metterne a tema la portata storica, antropologica ed etica» per farne materia e stimolo all’incontro. Esse «sentono e riconoscono nel Vangelo la fonte primaria e straordinariamente innovativa per il riconoscimento e la restituzione della dignità femminile». Richiamano esplicitamente alcuni passi evangelici: «la donna è chiamata per nome(Gv 20,11-18), sottratta ad ogni abuso o arbitrio (Gv 7,53-8,11), partecipe e responsabile dei destini dell’umanità accanto e insieme all’uomo (Gv 19,26), destinataria di un ruolo soteriologico, paradigma della peculiarità della sua collocazione storica (Lc 1, 26-38)».

Al logos evangelico è riconosciuta, però, una valenza antropologica universale che travalica le appartenenze e può essere riconosciuta indipendentemente da «cultura, età, provenienza e condizione». Nel vangelo stesso si riconoscono tracce di un protagonismo femminile capace di costruire «percorsi alternativi» sul piano politico NON contrassegnati dal «binomio dominio-sudditanza che contraddice sfrontatamente lo spirito autentico della democrazia e genera l’insana rete di ingiustizie che corrode la società e l’ambiente».

A me, in effetti, è proprio questa valenza antropologica (storica ed etica) della rivoluzione evangelica che interessa di più sottolineare, tenendo conto che, seppur di importanza radicale e di necessità ancora oggi improrogabile, il riconoscere e rilanciare la dignità della donna non basta alla costruzione armonica della polis che costituisce l’orizzonte ultimo dell’associazione se, in modo direttamente proporzionale a tale riconoscimento, non si punta alla inventio di un modo nuovo di essere umani insieme, uomini e donne, maschile e femminile; potremmo dire, per restare sempre nell’alveo della tipologia biblica, conformemente all’antropologia iconica indicata in Gen 1-2 che è un’antropologia strutturalmente relazionale e inclusiva dell’alterità. La sfida, infatti (oggi come ieri), non è solo quella della parità di genere ma il MODO di essere maschi e femmine, cambiare INSIEME la modalità e costruire una nuova cultura che sia strutturalmente relazionale e inclusiva dell’alterità. Gesù, in questo, è stato certamente un maschio rivoluzionario e un uomo che ha innescato processi. È stato uomo-maschio in un modo certamente distonico sul piano culturale. Così come, del resto, è stato distonico come “giudeo”, come “rabbi”, come “messia”, e per l’appunto è finito com’è finito. Se n’è «andato», non prima però di aver dato vita a processi che ancora oggi noi riconosciamo – al di là di ogni appartenenza – incredibilmente validi e fecondi al livello antropologico.

1. La possibilità di un’«altra narrazione» come frutto di una rivoluzione antropologico-culturale

Dobbiamo, senza dubbio, al lavoro ormai secolare di tante donne e lettrici competenti della Scrittura la possibilità – che a noi, oggi, sembra quasi scontata – di rivedere nei nostri testi “sacri” un’altra narrazione che non sia più ostile alle donne, ma loro amica.[1] Una narrazione che «gettava luce su quanto, della Bibbia, era sempre stato lasciato nell’ombra della marginalità e di cui alcune donne facevano invece motivo di arricchimento spirituale ma, proprio per questo, anche spunto critico, fondamento di libertà di pensiero, spinta di liberazione»;[2]una narrazione, cioè, che ha scoperto la molteplicità, complessità e poliedricità della presenza femminile nella memoria fondativa di Israele e delle prime comunità cristiane; una narrazione in cui si intrecciano, quasi inestricabilmente, forza e sofferenza, potere e violenza, resistenza e sconfitta, emarginazione e riscatto, amore e morte.

Senza una rivoluzione antropologico-culturale, questa possibilità non sarebbe stata per noi fruibile: anche uno sguardo rapido a come ci si è arrivati, nella storia della lettura dei testi, dimostra una circolarità virtuosa tra il potenziale antropologico dei racconti biblici e la capacità delle società umane di evolversi verso la giustizia e, in particolare, la capacità delle donne di camminare verso il proprio riscatto e di costruirselo a prezzo della vita.[3]

Da dove veniamo?

È risaputo che il contesto sociale, religioso e culturale in cui Gesù di Nazaret è vissuto e ha predicato era quello del giudaismo palestinese del I secolo segnato, nelle sue istituzioni e nei suoi modelli, a una visione maschilista e patriarcale: «una società patriarcale è gerarchica nella struttura e pone il patriarca maschio (capo della famiglia) al vertice di una piramide socialecome colui che presiede a un esercito di subalterni. Questi includono le mogli, i figli, gli schiavi». Questi hanno uno status inferiore nella società, rispetto al patriarca. «Descrivere il giudaismo come una religione patriarcale», dunque, significa anche pensare a una religione che «mette Dio al vertice della piramide» e postula un patriarca maschio che «nell’immaginare la società giudaica come espressione dell’ordine divino, imita Dio», mantenendo il proprio status superiore e tutti gli altri sotto la sua tutela, in primis le donne.[4] È nota la benedizione che ogni giudeo, secondo la Tosefta, è invitato a recitare ogni giorno:

«rabbi Giuda dice: ogni persona deve recitare ogni giorno tre benedizioni. Benedetto sia Colui che non mi ha fatto gentile; benedetto sia Colui che non mi ha fatto un ignorante;benedetto sia colui che non mi ha fatto donna» (Tosefta Berachot 6,23).

Non gentile, perché le nazioni non valgono niente davanti a Dio (cf. Is 40,17); non ignorante, perché gli ignoranti vuoti non conoscono la Legge e non temono il peccato; non donna, perché le donne non sono obbligate a seguire i comandamenti con cui i maschi esprimono la loro abilità e il loro desiderio nel servire Dio. Come gli schiavi e i bambini, le donne non sono obbligate all’osservanza di molti dei precetti cui sono obbligati gli ebrei maschi (cf. Tosefta Berachot 5,18). Ma, in aggiunta, le donne si trovano in una condizione che è irreversibile proprio per la loro natura biologica: gli schiavi possono sempre essere riscattati e diventare uomini liberi; i bambini crescono e diventano uomini; gli ignoranti possono studiare la Legge. Ma le donne non possono diventare maschi: rimangono «altro» per definizione![5]

Il giudaismo, dal canto suo, faceva eco a un’antropologia già diffusa in ambito greco: secondo Diogene Laerzio, sia Socrate che Talete si ritenevano grati alla sorte perché erano nati uomini e non bestie, uomini e non donne, greci e non barbari (Vite dei Filosofi, I.33)! Le basi erano già presenti nel mito: secondo Esiodo,la splendida Pandora – la «tutta dono» – fu creata come prima donna per punire l’arroganza di Prometeo e dal suo vaso vennero per gli uomini tutte le sciagure (fatica, malattia, anzianità e morte).

Quando, facendo un salto di spazio e di tempo, arriviamo all’enunciato paolino che in Cristo «non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» (Gal 3,28; cf. anche Col 3,11), siamo effettivamente davanti a una rivoluzione culturale (cioè di valori, di modelli e, potenzialmente, anche di strutture) cristologicamente fondata!In un colpo solo sono abbattute le discriminazioni di tipo etnico-religioso, di tipo socio-economico e di genere sessuale. Siamo davanti alla proclamazione di un messaggio «rivolto in ugual modo a tutti gli esseri umani» che «conduce l’essenzialità della fede all’interno dei rapporti di amore e di condivisione che si instaurano tra le persone, riconsegnando a ciascuno, nella sua sequela, un’identità aperta. Il sovvertimento delle gerarchie e dei poteri del mondo, il rifiuto del sistema di puro/impuro, la centralità della persona chiamata a rispondere responsabilmente all’annunzio di liberazione, il superamento di caste e discriminazioni, tutto ciò innesta nella storia ineludibili dinamiche di trasformazione che si ripercuotono inevitabilmente su identità e ruoli femminili».[6]

2. Le pratiche di vita di Gesù e la sequela delle donne

Il NT attesta trasversalmente e in più forme il dato di questa rivoluzione antropologica, anzitutto al livello di valori e poi di pratiche di vita (meno, invece, di strutture). Le tracce, pur evidenti, di un effettivo seguito femminile del maestro di Nazareth non avrebbero il valore che hanno se non fossero lette nel contesto di una testimonianza letteraria molto più ampia e articolata riguardo alla presenza e attività delle donne alle origini cristiane; una presenza del tutto rivoluzionaria dal punto di vista socio-culturale che dimostra, senza dubbio, una consapevolezza nitida – soprattutto nei primi decenni del costituirsi ecclesiale – della rivoluzione di valori e di modalità relazionali innescata da Gesù con le sue pratiche di vita e con il suo evangelo.

a) Vangeli: tanto nei racconti sinottici quanto nel racconto giovanneo, il carattere innovativo della relazione Gesù-donne spicca in modo evidente non solo al livello delle pratiche di vita di Gesù (racconti di miracoli che hanno le donne come interlocutrici e beneficiarie dirette o indirette; storie di discepolato femminile; storie di relazioni amicali o di incontri intensissimi seppure occasionali tra Gesù e singole donne), ma anche al livello dei suoi insegnamenti che hanno le donne come modello (cf. la parabola del ritrovamento gioioso declinata al maschile e al femminile in Lc 15,3-10 o le donne prese a modello in Lc 18,1-8; 21,1-4) o, per altro verso, la coppia maschio-femmina come archetipica (cf. Lc 17,34-35).

b) Atti: le donne sono protagoniste del radicarsi dell’annunzio nei concreti contesti di vita; sono il punto di riferimento delle case in cui si riuniscono i credenti (cf. Maria madre di Giovanni detto Marco in At 12,12-17; Maria commerciante di Lidia in At 16,13-15); la «discepola» Tabità è esempio di cura generosa (9,36-43); Priscilla col marito Aquila è protagonista dell’evangelizzazione prima di e poi a fianco di Paolo (18,2-4.18.24-27).Tante «donne della nobiltà» greca ascoltano e accolgono la predicazione paolina, fungendo da anello di congiunzione tra mondo giudaico e mondo pagano (cf. At 17,4.12).

c) Epistolario: le lettere apostoliche (quelle paoline come le «cattoliche») portano chiaramente i segni della trasformazione in atto nelle chiese nell’arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo all’inizio del II. Più le chiese si radicano nel tessuto urbano della società greco-romana più emergono le difficoltà di traduzione della rivoluzione evangelica in termini o codici culturalmente comprensibili a «quelli di fuori» (i non credenti); appaiono, conseguentemente, non poche differenze tra gli scritti più antichi (come le lettere autenticamente paoline) e quelli più tardivi (come le lettere deuteropaoline e pastorali o la 1Pt). In quelli più antichi appare più evidente la coerenza con la rivoluzione evangelica; in quelli più recenti emerge di più lo sforzo di adattamento culturale, come si vede dai cosiddetti «codici domestici» che regolavano, nella cultura del tempo, le relazioni interne alla famiglia patriarcale (mariti-mogli; genitori-figli; padroni-schiavi).

– I passi culturalmente più coerenti con la rivoluzione gesuana: Rm 16 (Febe, diacono; Giunia apostolo; Prisca e Maria, Trifena e Trifosa, Perside e Giulia, o ancora in Fil 4,2-3 Evodia e Sintiche, collaboratrici apostoliche). Coerentemente col racconto di Atti, anche l’epistolario paolino racconta di una collaborazione femminile nella missione e nella guida delle comunità: «le donne di Paolo hanno ruoli attivi nelle comunità: impegnate nel campo della carità, del diaconato, della catechesi, dell’evangelizzazione, della missione e dell’apostolato … Donne attive e autonome, spesso facoltose, che svolgono ruoli non di semplice accoglienza, ma soprattutto di guida, di presidenza e di apostolato, in comunità non ancora dotate di una struttura ministeriale, dove, al contrario, si esercitavano differenziati carismi e ministeri».[7]

– I passi culturalmente più incoerenti con la rivoluzione:1Cor 11,7-10 (la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli);[8] 14,34 (le donne tacciano in assemblea); 1Tm 2,91-15 (la donna impari in silenzio, sottomessa; non concedo a nessuna donna di insegnare né di dettare legge all’uomo; si salverà partorendo figli [ma cf. il problema del diffondersi di insegnamenti ostili al matrimonio in 4,1-3]); i codici domestici (Ef 5,21-6,9; Col3,17-4,2; 1Pt 2,11-18; 3,1-7).

Sullo sfondo di questo quadro complessivo, mi fermo qui su alcune costanti e implicazioni di tipo socio-antropologico legate alla sequela femminile di Gesù e qualche parola in più la dedicherò alla figura della Maddalena.

2.1. Il seguito femminile di Gesù: il dato

Complessivamente parlando, Mc conta 16 personaggi femminili; in Mt le donne sono17; in Luca 22; in Gv 8 (con l’adultera 9), ma estremamente paradigmatiche e rivelative.

Il testo più sintetico, come è noto, è quello di Lc 8,1-3 che segue da vicino, del resto, il racconto dell’incontro tra Gesù e una donna ‘peccatrice’ in casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50). Di questo seguito femminile parlano anche Marco (15,40-41) e Matteo (27,55-56) nel contesto del racconto della passione. Mi fermo sull’attestazione lucana:

Καὶ ἐγένετο ἐν τῷ καθεξῆς καὶ αὐτὸς διώδευεν κατὰ πόλιν καὶ κώμην κηρύσσων καὶ εὐαγγελιζόμενος τὴν βασιλείαν τοῦ θεοῦ καὶ οἱ δώδεκα σὺν αὐτῷ,2 καὶ γυναῖκές τινες αἳ ἦσαν τεθεραπευμέναι ἀπὸ πνευμάτων πονηρῶν καὶ ἀσθενειῶν, Μαρία ἡ καλουμένη Μαγδαληνή, ἀφ᾽ ἧς δαιμόνια ἑπτὰ ἐξεληλύθει,3 καὶ Ἰωάννα γυνὴ Χουζᾶ ἐπιτρόπου Ἡρῴδου καὶ Σουσάννα καὶ ἕτεραι πολλαί, αἵτινες διηκόνουν αὐτοῖς ἐκ τῶν ὑπαρχόντων αὐταῖς

E successivamente, mentre faceva strada per città e villaggi proclamando e annunziando la buona novella del Regno di Dio, anche i 12 erano con lui e alcune donne che erano state guarite dagli spiriti cattivi e da infermità: Maria chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni, e Giovanna moglie di Cuza amministratore di Erode e Susanna e molte altre, che li servivano con i mezzi che avevano a disposizione

Dunque, «con Gesù», in atto di annunziare per città e villaggi, non ci stanno solo i Dodici ma almeno anche altre tre donne da lui beneficate e curate al livello integrale (sul piano religioso espresso attraverso il linguaggio della possessione dagli spiriti impuri; sul piano fisico-morale espresso attraverso il linguaggio della infermità o debolezza). Queste tre sono chiamate per nome. Ma ce ne sono «anche molte altre» che affiancavano a vario titolo e in modo concreto i discepoli itineranti. Donne facoltose che non solo dispongono a loro modo dei loro beni, ma sono anche libere di rompere in qualche modo lo schema dei ruoli loro attribuiti per seguire (anche temporaneamente) un rabbi itinerante col suo gruppo.

Dai racconti della passione e risurrezione si vede che a queste donne, in primis Maria Maddalena, sono collegate anche altre figure di donne legate a vario titolo al gruppo dei discepoli maschi come la «madre dei figli di Zebedeo» (forse la stessa Salome di cui parla Marco 15,40 e 16,1). Tutti e tre i Sinottici parlano anche di una «Maria di Giacomo» (Mc: il piccolo) e di Ioses. Lc 24 parlerà di nuovo anche di Giovanna e Gv 19 di una Maria di Cleopa (da identificare con la «sorella della Madre»?).

A queste donne, in conclusione, viene attribuita una itineranza missionaria come ai discepoli maschi, benché non si possa valutarne sul piano storico l’estensione geografica e la continuità temporale. Ad esse vengono attribuite relazioni con i maschi che possono coesistere a diverso titolo: sia familiari (per la madre dei figli di Zebedeo) che discepolari (in rapporto a Gesù); viene attribuita una certa autonomia economica e di movimento e, in alcuni casi speciali, anche uno status sociale relativamente elevato (come nel caso della Giovanna moglie dell’amministratore di Erode Antipa).

2.1.1. La Maddalena

La prima cosa che salta all’occhio è che in tutti gli elenchi sinottici di donne seguaci di Gesù, nelle diverse tappe della sua vita, Maria di Magdala occupa sempre il primo posto nella lista. Particolarmente importante risulta essere la sequenza narrativa che riflette nei vangeli la struttura stessa del Kerygma (morì, fu sepolto, risuscitò, apparve):

Sotto la croce:

Mc 15,40-41: c’erano lì alcune donne anche che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali quando era in Galilea lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme

Mt 27,55-56: C’erano lì molte donne che osservavano da lontano, che avevano seguito Gesù dalla Galilea servendolo, tra le quali Maria di Magdala e Maria madre di Giacomo e di Ioses e la madre dei figli di Zebedeo

Lc 23,49: stavano tutti i suoi conoscenti da lontano, e le donne che lo avevano seguito dalla Galilea che vedevano queste cose

Sepoltura

Mc 15,47: Maria la Maddalena e Maria di Ioses osservavano dove era stato deposto

Mt 27,61: C’erano lì Maria la Maddalena e l’altra Maria, sedute davanti alla tomba.

Lc 23,55-56: Avendo seguito (le vicende) da vicino, le donne che erano venute con lui dalla Galilea guardarono il sepolcro e come era stato deposto il suo corpo. Ritornate, poi, prepararono aromi e profumi. Il sabato riposarono, secondo il precetto

Risurrezione

Mc 16,1: E passato il sabato, Maria la Maddalena e Maria di Giacomo e Salome comprarono aromi per venire ad ungerlo

Mt 28,1: Ora, dopo il sabato, al chiarore del primo giorno della settimana, venne Maria la Maddalena e l’altra Maria a osservare la tomba

Lc 24,1.10-11: Il primo giorno dopo il sabato, al mattino profondo, vennero al sepolcro portando gli aromi che avevano preparato … Ed erano la Maddalena Maria e Giovanna e Maria di Giacomo e le altre con loro. Dicevano queste cose agli apostoli, ma queste parole apparvero ai loro occhi come un discorso a vanvera e non credettero loro.

In altri termini, gli elementi che ci vengono dalla sequenza sinottica dei racconti pasquali, integrati dal dato che ci fornisce Lc 8, ci permettono di ipotizzare che Maria di Magdala appartenesse al gruppo dei carismatici itineranti costituitosi attorno a Gesù. A differenza delle altre donne, Maria non viene definita a partire dal riferimento maschile (un padre, marito o figlio) secondo le convenzioni patriarcali, ma a partire dalla sua provenienza cittadina che deve aver lasciato (almeno temporaneamente) per seguire autonomamente Gesù e il suo movimento. Non ci è dato sapere se fosse sposata, vedova, se avesse figli o altro. Né cosa significassero i suoi sette demoni …Quel che certo è che, rispetto alle altre donne nominate, occupa il primo posto, un po’ come Pietro rispetto ai Dodici. E che, rispetto all’esperienza di guarigione/esorcismo che la libera, è testimone della potenza risanante del Regno già durante la vita di Gesù. Sembra una personalità decisa, plausibilmente leader tra le donne, appunto come lo è Pietro tra i Dodici.

In Giovanni, poi, il suo ruolo è del tutto paradigmatico: intanto, a differenza che nei Sinottici, Maria di Magdala non occupa il primo ma l’ultimo posto nell’elenco delle donne sotto la croce (19,25: stavano presso la croce di Gesù sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa e Maria di Magdala…). In Giovanni, inoltre, non si fa menzione di donne nel contesto del racconto della sepoltura. Questo, però, non sembra un fatto casuale: al centro della scena del Golgota, tra l’uno e l’altro evento che esprimono il compimento perfetto delle Scritture e il loro telos, resta la parola rivolta alla madre e al discepolo amato (vv. 25-27), quella dopo la quale Gesù «sa» che «già tutto si è compiuto» (v. 28). Giovanni, che non aveva parlato finora della presenza di donne nella storia della passione e le presenta ora come figure positive vicino a Gesù in antitesi a quelle dei soldati, si distingue dai sinottici per il fatto che tra le donne – partecipi della crocifissione non «da lontano» (cf. Mt 27,55; Mc 15,40; Lc 23,49 eSal 38,12; 88,9.19) – menziona in primo posto la madre di Gesù, assente nei sinottici, e in ultima posizione Maria di Magdala, quasi che nelle due donne, giunta l’«ora», fossero presenti simultaneamente la donna-madre e la donna-sorella e amante, questa speculare a quella e pronta a riceverne il testimone. La Maddalena, non a caso, tornerà protagonista il giorno dopo il sabato (20,1-18) mentre la madre, comparsa all’inizio della manifestazione di Gesù a Cana, sparirà definitivamente dopo il compiersi della sua «ora».

  • Nel cap. 20 abbiamo «il racconto della scoperta della tomba vuota in termini di testimonianza non gerarchica ma corporativa: perché il racconto sia completo», uomini e donne devono fare riferimento l’uno all’altro e mettere insieme le loro parti in un racconto comune e condiviso»[9]
  • Attraverso la figura della Maddalena, però, Giovanni racconterà il successo della ricerca discepolare iniziata nelle prime pagine del racconto e culminata nell’incontro tra Maria e il Rabbuni suo Signore. La storia della Maddalena come racconto di ricerca soddisfatta: discepolato riuscito, nonostante tutto …. La storia di Gesù, come storia della ricerca del messia, è una storia riuscita nonostante il fallimento e la tragedia, per l’autodonarsi del Re Messia.
  • Ultima figura di donna nel racconto, unica del vangelo cui Gesù si rivolga chiamandola per nome, «nel racconto giovanneo Maria di Magdala entra in scena sulla soglia che separa il tempo pre- da quello post-pasquale e su questa soglia assume la sua funzione fondamentale: stabilire la connessione tra Gesù crocifisso e Gesù risorto».[10]
  • A differenza delle altre interpretazioni, secondo Karlsen Seim il dinamismo dell’incontro tra Maria e Gesù non va inteso in senso psicagogico e didattico, perché il problema non sta nel desiderio di Maria, ma nella condizione di Gesù! È vero però che la risurrezione «non ristabilisce meramente la presenza tangibile, ma spinge verso un nuovo modo di stare insieme».[11]
  • Il rischio connesso a una interpretazione di Gv 20,1-18 solo in termini di racconto di riconoscimento è che si perda l’aspetto dell’incarico profetico («vai…»). «La cristofania a Maria di Magdala non può essere considerata come una semplice rivelazione privata, senza rilevanza per la nascente comunità post-pasquale. Mentre, però, ‘vedere il Signore’ per Pietro e Paolo ha rappresentato, nella storia della ricezione, il fondamento per un apostolato universale e duraturo, la funzione apostolica di Maria di Magdala è stata ridotta a un servizio di annunzio a breve termine».[12] Invece, stando ai criteri di definizione dell’apostolato in 1Cor 9,1; 15,8s; Gal 1,10-17, per la cristofania e protofania pasquale si potrebbe dire Maria prima apostola. «E’ possibile tracciare una linea, che va dalla sua sequela di Gesù prima di pasqua e dalla sua diakonia fino al suo mandato missionario postpasquale, paragonabile, perciò, a quello che vede Paolo come diakonos/apostolos».[13]

E le esegete femministe si chiedono legittimamente: perché c’è stata una genealogia apostolica al maschile e non ce n’è stata una al femminile? È vero che il primato della sua figura ha lasciato una qualche traccia nella tradizione cristiana: un po’ per il titolo di «apostola degli apostoli» che le è stato dato dai padri della chiesa; un po’ per il modo con cui sotto il suo nome si sono raccolti, mescolati e concentrati – quasi facendone una figura dell’eccesso che salva (Martini) – i tratti propri di altre donne dei vangeli (la peccatrice di Lc 7, l’adultera di Gv 8 e Maria di Betania, con Gregorio Magno). Ma si è trattato di un primato riconosciuto solo in termini funzionali (al maschile) e simbolico-spirituali (non di concreto esercizio ministeriale). Una corretta esegesi dei testi, però, ci permette di andare ben oltre il ruolo sempre funzionale al maschile implicito nel titolo di apostola degli apostoli e riconoscere in lei, più semplicemente e più significativamente insieme, la prima apostola a tutti gli effetti. E ci permette, di conseguenza, di lanciare la fatidica domanda: perché l’apostolato al femminile è stato seppellito da quello al maschile riconosciuto poi, nella storia della chiesa, come l’unico legittimo e legittimante? E’ il problema della «genealogia apostolica» di Maria di Magdala di cui si occupano M. Perroni e C. Simonelli nel volume Maria di Magdala. Una genealogia apostolica (Aracne 2016), indagando il ruolo e il primato di Maria di Magdala nei testi gnostici dal II secolo in poi (Vangelo di Maria, Vangelo di Filippo, Pistis Sophia).[14]

2.1.1. Il seguito femminile di Gesù: le implicazioni antropologico-culturali, relazionali ed etiche

Ciò che mi sembra particolarmente interessante del dato evangelico sopra ricordato è scoprire quanti tabù patriarcali e maschilisti la pratica gesuana sembra avere infranto!

Intanto proprio in merito alla cerchia dei discepoli che un maestro deve avere e allo stile relazionale che gli compete: se un saggio, secondo le regole culturali del contesto giudaico, non doveva parlare nemmeno con una donna per strada (onde evitare di essere accusato di rapporti promiscui),[15] la presenza di un discepolato femminile accanto a e frammisto a quello maschile è chiaramente una rivoluzione culturale implicante l’attribuzione di pari dignità relazionale sul piano umano e religioso; implica, anche, la rottura di determinati confini separatori e l’inclusione, all’interno di un sistema relazionale rigido, anche dell’altro da sé. Ancora: la Mishna dice che uno non si può creare un discepolato di donne, schiavi e minori che non possono leggere pubblicamente la Torah (Pesah 8,7).

La Tosefta Shavuot (2,5), a proposito dei giuramenti, recita: «se uno ottiene un giuramento dai gentili, dalle donne, dai minori e dai parenti e altri che siano squalificati, questi sono sollevati dal loro giuramento». Le donne, dunque, sono squalificate anche come testimoni. Ma nei vangeli sono le prime testimoni del Risorto e, sottolinea Luca, le cose stanno proprio «come avevano detto le donne» (Lc 24,24): la loro parola non è vaneggiamento come pensano gli apostoli (24,11), ma esperienza, memoria ed annunzio (24,8-9).

Con la sua pratica di vita Gesù infrange le regole di separazione imposte dalle norme di purità e valide per le donne in ragione del tabù del sangue che le rende potenzialmente impure e contaminanti a causa del loro ritmo biologico e, dunque, a causa della loro sessualità: «secondo le categorie di puro e impuro, la donna, a causa delle mestruazioni, rendeva impuro l’ambiente che la circondava, cosicché il suo corpo era continuamente tenuto sotto osservazione perché non contaminasse il sacro (Nm 15,38). Le perdite di sangue, infatti, la collocavano in uno stato di perpetua impurità cultuale (Lv 15,25-30) che le impediva di partecipare alle attività di culto e a una qualsiasi festa religiosa e di entrare nel santuario; ne facevano una persona che contagiava chiunque l’avvicinasse o, addirittura, avesse contatto con oggetti da lei toccati. Con Gesù, il corpo della donna non è più il luogo dell’impurità».[16]Gesù si fa toccare dall’emorroissa e la guarisce reintegrandola mentre, al contempo, tocca un cadavere di ragazzina e gli restituisce la vita (Mc 5); esalta i rituali di contatto e di relazione amorosa della ‘peccatrice’ (Lc 7,36-50) mentre inchioda il fariseo Simone, che pure lo ha invitato a cena, alla propria rigidità e staticità di giudice implacabile e non coinvolto nella relazione con il maestro. Si intrattiene, in casa (Marta e Maria) e fuori casa (la Samaritana) con donne e, soprattutto nel racconto giovanneo, queste hanno davanti a lui la dignità di maestre ben consapevoli della propria fede e di profetesse dell’azione (cf. il parlare di Marta o il gesto profetico di Maria di Betania).

Anche in rapporto alla Torah, spicca la distonia della prospettiva e della pratica di vita di Gesù: le donne, e il loro corpo, non possono più essere il campo di battaglia legale – ordinata alla definizione e attribuzione di poteri – tra gli interpreti maschi della legge! Lo dimostra il caso dell’adultera (Gv 8,1-11) ma lo dimostra anche la tradizione delle parole di Gesù in merito al divorzio, soprattutto nella versione matteana (cf. Mt 19.1-12). Le donne, nella loro identità sessuale e nel ruolo sociale che ad esse è stato attribuito in ragione di questa, non possono più essere strumento dell’esercizio del potere maschile! Insieme e, in alcuni casi, anche più dei maschi sono esempio della vera e genuina attitudine aperta all’instaurarsi e accadere della sovranità divina nel mondo.

E, soprattutto, hanno il loro ruolo e la loro libertà e autonomia identitaria in una comunità di seguaci di Gesù in cui è del tutto ribaltato il principio gerarchico (inversione di status tra primo e ultimo nella scala sociale) e sono desacralizzati i rapporti (il culto, il tempio, il sacerdozio, il sacro non definiscono più ruoli e distanze). Tanto nella predicazione di Gesù quanto nella sua ricezione e attuazione ecclesiale, l’annunzio del Regno implica un radicale rovesciamento dei rapporti fondati sulla differenza di status sociale e religioso (cf. Gv 13,2-5.12-15). Significa dar vita a comunità di credenti per i quali la figura dell’erede del Regno non è quella di un pio fedele alla Legge (cf. Mc 10,17-27) o dei sacerdoti e leviti custodi obbligati della propria purità rituale (cf. Lc 10,25-37), ma quella dei pubblicani e delle prostitute (cf. Mt 21,31-32), dei bambini (cf. Mc 10,13-16) o di chi è fedele ai «più piccoli» fratelli di miseria e di sventura (cf. Mt 25,34-40); nelle quali la figura relazionale privilegiata è quella della fraternità-sororità-maternità ma mai quella della paternità-gerarchia al maschile (cf. Mt 23,8-12) e in cui, quindi, il criterio strutturante non può essere quello gerarchico e clientelare della famiglia-azienda, con le sue funzioni sociali nel contesto dell’impero romano, ma solo quello del servizio reciproco. In questa direzione sembra andare, nelle sue diverse espressioni, l’ecclesiologia neotestamentaria se si osserva la dominanza lessicale del pronome reciproco allēlōn, «gli uni gli altri», nei diversi testi che, nel bene e nel male, parlano delle relazioni fraterne (cf. Mc 9,50; Gv 13,34-35; 15,12.17; At 15,39; Rm 1,12; 12,5.10.16; 13,8; 14,13.19; 15,5.7.14; 1Cor 11,33; 12,25; Gal 5,13.15.26; 6,2; Ef 4,2.25.32; 5,21; Fil 2,3; Col 3,9.13; 1Ts 3,12; 4,9.18; 5,11.15; 2Ts 1,3; Eb 10,24; Gc 4,11; 5,9.16; 1Pt 1,22; 4,9; 5,5.14; 1Gv 1,7; 3,11.23; 4,7.11.12; 2Gv 5). La reciprocità vi appare come l’antidoto stabile a qualunque forma di esercizio violento del potere. In una fraternità dove l’unica legge è quella del servizio reciproco nell’amore e del portare insieme il proprio e l’altrui «fardello» (cf. Gal 5,13; 6,2-5), l’esercizio dell’autorità non potrà comportare mai l’asservimento dei credenti (cf. Gal 2,4) né una sottomissione passiva e muta al punto di vista altrui (cf. Gal 2,5), perché contesti, storie e circostanze differenti possono determinare un’interpretazione teologica e pratica diversa della stessa comune eredità/verità di fede. In una fraternità nella quale lo status sociale non conta più per misurare l’identità profonda delle persone umane (l’«uomo nascosto del cuore», cf. 1Pt 3,4) e in cui, anzi, il Cristo viene presentato nelle vesti dello schiavo (cf. 1Pt 2,18-25) e alle categorie sociali meno rilevanti (donne e schiavi) viene attribuito un altissimo potenziale testimoniale a misura della loro capacità di resistenza pacifica, persino silenziosa ma esteticamente quanto mai efficace (cf. 1Pt 3,1), si fa solo «l’apprendistato della dolcezza e della non-violenza», la stessa che potrà e dovrà essere mostrata «verso quelli di fuori».[17]

Conclusione

La rivoluzione della presenza e del ruolo delle donne discepole, dunque, implica la sfida della reciprocità maschile-femminile quasi archetipo pieno della complessiva rivoluzione di valori evangelica, tutta orientata al combattimento per la liberazione dell’umano. Appartiene alla natura stessa dell’annunzio del Regno, che già nel pensiero e nella predicazione di Gesù è intrinsecamente un concetto ‘bellico’ (cf. Mc 3,22-27; Lc 11,20), la lotta senza quartiere contro ciò che attenta alla dignità, libertà e integrità della vita umana «posseduta» o tenuta in ostaggio da alcunché di male (cf. Mt 11,2-6 // Lc 7,18-23; 12,24-29 // Mc 3,22-27 e Lc 11,15-23 e, più ampiamente, la pratica gesuana degli esorcismi e delle guarigioni diversamente rievocata, interpretata e attuata alle origini della predicazione cristiana). Nei contesti, nei modi e nelle riformulazioni concettuali più diverse, l’annunzio evangelico resta in tutto il NT un’azione finalizzata alla liberazione e implicante la guerra contro ogni forma di asservimento dell’uomo (cf., ad esempio, la storia di liberazione multiforme costruita in At 16,16-34) o di sua dis-integrazione – personale (dell’uomo con se stesso, tra interiorità del cuore e esteriorità del corpo-relazionale) e sociale (del singolo con la comunità umana di appartenenza) – in nome dei confini ‘ipocriti’ imposti da una morale cultuale e religiosa.[18] Ne mantiene la forza liberatrice, integratrice e risocializzante. La definizione stessa della Chiesa in termini socio-parentali e, soprattutto, di fraternità (cf. emblematicamente 1Pt 2,17; 5,9), rispondeva proprio all’esigenza di dare ai singoli il senso di un’appartenenza forte capace di determinare solidarietà e mutuo sostegno, ideale e materiale: non secondo i parametri culturali e l’assetto societario delle città dell’impero romano, causa di diverse forme di sradicamento, oppressione, marginalizzazione ed esclusione (cf. Gc 2,1-11), ma secondo criteri contro culturali di matrice evangelica (cf. Gc 2,5) che determinavano, al contrario, l’azzeramento di tutte le forme di contrapposizione escludente (cf. Gal 3,28; 6,15; Col 3,11), come la differenza sociale (schiavo o libero), entico-religiosa (giudeo, greco, barbaro, circonciso o meno) e di genere (maschio o femmina), facendo delle comunità cristiane, per la loro «funzione integrativa», uno «spazio sociale di libertà».[19]

  1. Cf. la prefazione di Marinella Perroni a A. Valerio, Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, Feltrinelli, Milano 2014, 4ss.
  2. Ibid., 6.
  3. Si pensi alle «suffragiste della fine del XIX secolo che, americane e protestanti, hanno avviato una lettura critico-femminista del testo sacro» (cf. Elizabeth Cady Stanton, suffragista, 1815-1902 → nasce la The Woman’sBible nel 1895), ma anche alla vicentina Elisa Salerno (1873-1957) che fu tacciata di modernismo perché criticò al Martini (nel 1926) le sue note bibliche antifemministe (Ibid., 8).
  4. TalIlan, «The woman as ‘other’ in rabbinic literature», in J. Frey, D.R. Schwartz & S. Gripentrog (eds.), Jewish Identity in the Greco-Roman World, Brill, Leiden-Boston 2007,77.
  5. TalIlan, «The woman as ‘other’», 85.
  6. A. Valerio, Le ribelli di Dio, 19-20.
  7. A. Valerio, Le ribelli di Dio, 123-124.
  8. In realtà il testo è di difficile interpretazione: il velo potrebbe essere un segno di sottomissione oppure, al contrario, il segno del potere profetico che pure le donne hanno e che, tuttavia, devono esercitare senza rischiare di essere scambiate per prostitute (le donne sposate devono portare in pubblico il velo come segno di decoro) o per baccanti (che nei riti orgiastici portavano la capigliatura sciolta). Verosimilmente, a Paolo interessa l’ordine e il decoro dell’esperienza profetica, senza ambiguità (cf. Ibid., 128).
  9. TuridKarlsenSeim, «Donne e negoziazioni di genere nel vangelo di Giovanni», in M. Navarro Puerto – M. Perroni (edd.), I Vangeli. Narrazione e storia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012, 236-237.
  10. Andrea Taschl-Erber, «Maria Maddalena. La prima apostola?», in: M. Navarro Puerto – M. Perroni (edd.), I Vangeli. Narrazione e storia, 385.
  11. T.KarlsenSeim, «Donne e negoziazioni di genere», 240.
  12. A. Taschl-Erber, «Maria Maddalena»,394.
  13. Ibid., 396.
  14. Il Vangelo di Filippo la definisce «la compagna» del Signore (59,10) o «del Figlio» (63,33) e dice che il Signore l’amava più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca (Ibid.), indicando con questo linguaggio la dignità di Maria come figura del perfetto gnostico e simbolo della Sofia unita al Salvatore. Nella letteratura cristiano-gnostica, le è attribuito un intero testo, il Vangelo di Maria. L’apocrifo Vangelo di Pietro la chiama esplicitamente «discepola del Signore» (12,50).
  15. Mishna Avot 1,5: “Jose ben Johanan da Gerusalemme soleva dire: sia la tua casa aperta spaziosamente, siano i poveri i tuoi familiari e non parlare molto con la donna…Da ciò dissero i dottori: chiunque aumenta ciarle con le donne, causa danno a se stesso, si distrae dallo studio delle parole della Torah e la sua fine è di acquistarsi l’inferno”. Probabilmente un aspetto del racconto giovanneo è quello di opporsi alle tendenze anti-femminili che volevano ridimensionare il ruolo della donna nella comunità dei credenti.
  16. A. Valerio, Le ribelli di Dio, 94.
  17. Cf. S. Dianich – C. Torcivia, Forme del popolo di Dio, San Paolo 2012, 145.
  18. Cf.Mc 2,13-17; 7,14-23 e il concetto di «santità e purità offensiva» che promana dall’integrità della persona stessa ben illustrato da K. Berger, Psicologia storica del Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 91-105: «i primi missionari cristiani hanno chiaramente concepito la loro potestà come una forza dinamica e trascinatrice. Essa superava infatti qualsiasi paura di fronte all’impurità e al paganesimo, alla malattia e alla morte…Si tratterebbe del riflesso dell’esperienza di una penetrazione missionaria del mondo in favore del regno di Dio, esperienza che fa saltare tutti i confini. Al posto del ripiegamento (farisaico) sulla santità, messa in pericolo, subentra l’esperienza di un dono di Dio che fa saltare tutti i confini. Potrebbe perciò essere che il corrispondente psicologico a questo fenomeno missionario e socio-ecclesiale consista nella concezione della fuoriuscita e del traboccamento dall’intimo dell’uomo» (Ibid., 98).
  19. Cf. F. Vouga,Il cristianesimo delle origini. Scritti, protagonisti, dibattiti, Claudiana, Torino 2001, 255.